Chi era Giorgio Ferrini?

All’indimenticato capitano del Torino, ricordato in questi giorni a 43 anni dalla sua scomparsa, è intitolato il campo di gioco di Pino Torinese. Rileggiamo la storia di un mito sportivo nel racconto di Alberto Manassero

Pensare a Giorgio senza una fitta al cuore è impossibile. Troppo presto, troppo ingiusto, troppo torto ha fatto la vita togliendolo alla sua magnifica famiglia e alla nostra, quella granata. Che lui rappresentò così bene, più di tutti, meglio di tutti. Giorgio Ferrini, l’unico capitano del Toro che se lo chiamiamo Capitano, con la maiuscola come Valentino Mazzola, non bestemmiamo. Non ce ne vogliano altri grandi e pure grandissimi capitani granata, però Valentino e Giorgio sono il Toro.

Ferrini riposa nel cimitero di Pino Torinese, dove aveva scelto di vivere con la famiglia. Fu portato via da un’emorragia cerebrale l’8 novembre 1976, da pochi mesi aveva vinto lo scudetto del dopo Superga come vice di Radice: ma non c’è tifoso che non rimpianga la sua assenza tra i giocatori, per quello storico traguardo. Nessuno l’avrebbe meritato più di lui. Difficilmente qualcuno potrà meritarlo di più in futuro. Aveva offerto la sua ultima presenza in campo il 22 giugno 1975, in Coppa Italia: la 566a maglia granata indossata nei sedici ininterrotti anni di militanza Toro (più il Settore Giovanile), record assoluto della squadra. Ma chi era Giorgio Ferrini?

Giorgio Ferrini era un grande, grandissimo calciatore. E tanto altro. Innanzitutto una uomo fantastico. Per riassumere – certo in modo sommario e incompleto – il suo essere, possiamo definirlo un donatore. Donatore di organi: non aveva solo il fegato capace di ricrescere, e lo profuse a piene mani ogni giorno della vita, bensì anche il cuore. Lo donò a Mariuccia, la sua donna e la sua sposa; ai suoi adorati figli Cristiana e Amos; ci fece casa, col cuore. Che continuò a ricrescere e che lui continuò a donare: al Toro, a quella maglia color sangue, ai compagni, a tutti i ragazzotti che passarono dal Filadelfia e che Giorgio covò, allevò, plasmò: uno per tutti, Paolino Pulici. E alla gente, quanto cuore regalò alla gente! Persino all’Italia, alla Nazionale, che forse non meritava tanto, almeno se ci basiamo sul modo in cui Ferrini fu maltrattato da taluni salotti soprattutto milanesi. Ma lasciamo perdere: Giorgio Ferrini potè proseguire a schiena ritta e testa alta, altissima. Lui. Però quanto ingiusto, vergognoso male gli fecero.

Nato a Trieste, Giorgio i primi calci li tira alla Ponziana, a 16 anni – nel ‘55 – arriva nel vivaio del Torino. Cresce, fa un’esperienza al Varese in Serie C. Torna alla base per di- ventare pietra angolare e pilastro della squadra che risale dalla prima retrocessione della sua storia. Amore eterno, quella maglia: non l’abbandona neanche per i tanti soldi di Angelo Moratti e gli strepitosi successi dell’Inter herreriana. Si accontenta di due Coppe Italia. Ma che Coppe Italia: sono i primi due trionfi granata dopo la sciagura di Superga. Non sono trionfi qualsiasi, sono apoteosi. Per non parlare del secondo posto in campionato (1972), che ancora grida vendetta: Ferrini, col suo Toro, lo Scudetto se l’era meritato sul campo! In azzurro è Campione d’Europa 1968. Mezz’ala tutto fare, fa davvero tutto. E c’è sempre, per i compagni. Di tecnica ne ha, di cervello di più, ma è ancora una volta il cuore che copre tutto, che straborda; sono la generosità, la grinta. L’essenza dell’essere granata. Giorgio Ferrini è il giocatore da Toro per eccellenza, ne possiede l’anima. In lui si sono incarnate tutte le caratteristiche, le unicità che quella maglia rappresenta. Il tifoso granata si specchia in lui. A quasi 43 anni dalla sua prematura scomparsa, un qualsiasi ragazzo che voglia capire cos’è il Toro e cosa significhi essere un calciatore da Toro non ha che da guardare lui. Eterno Maestro, Giorgio.

ALBERTO MANASSERO  *giornalista di Tuttosport